Aspetti genetici comuni alle principali malattie neurodegenerative

 

 

LORENZO L. BORGIA & DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 24 gennaio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]

 

Dieci anni fa Bertram e Tanzi notavano che la ricorrenza familiare delle principali malattie neurodegenerative era stata individuata come aspetto saliente già molte decadi prima che gli studi di biologia e patologia molecolare accertassero le basi genetiche e biochimiche attualmente note[1]. La cosiddetta “familiarità”, quale aspetto caratterizzante ma spesso difficile da ricondurre ai paradigmi più semplici di trasmissione ereditaria delle malattie genetiche, non solo era stata riscontrata dai maggiori studi epidemiologici, ma rappresentava anche un importante riferimento anamnestico per l’orientamento diagnostico in neurologia e psichiatria, particolarmente nel caso di quadri clinici incipienti o di sintomi di degenerazione lievi o sfumati. Il sospetto di eziologia ereditaria ha costituito un importante motore per la ricerca dell’ultimo mezzo secolo.

Storicamente è stata l’identificazione di mutazioni specifiche segreganti con la malattia, in geni precedentemente sconosciuti, a promuovere l’attenzione dei biologi molecolari verso proteine e vie biochimiche che oggi si ritiene abbiano un ruolo fondamentale per lo sviluppo di vari processi neurodegenerativi. Si pensi alla scoperta delle mutazioni nel precursore del peptide β-amiloide, rivelatesi all’origine di quadri clinici di malattia di Alzheimer, le mutazioni nell’α-sinucleina, responsabili di forme di malattia di Parkinson, e mutazioni nella proteina associata ai microtubuli tau, che causano demenza fronto-temporale con parkinsonismo.

Col procedere degli studi, si è andata sempre più delineando una dicotomia - già osservata in malattie di interesse internistico, quali alcuni tipi di cancro - così  schematizzabile:

1) forme familiari, rare, spesso ereditate come caratteri mendeliani semplici, e

2) forme idiopatiche o non familiari o sporadiche, in realtà frequenti e condizionate da fattori genetici che seguono criteri di ereditarietà non-mendeliana.

A proposito di questa seconda categoria è opportuno precisare che il termine “sporadico”, che traduce l’inglese sporadic, non deve essere inteso nell’accezione semantica di poco frequente, ma nel significato convenzionalmente attribuito al termine dalla medicina classica che, rifacendosi all’etimo greco di σποραδιχός (che vive sparso), lo impiega in opposizione a epidemico ed ereditario, per indicare casi clinici che non riconoscono una comune origine. Nella sclerosi laterale amiotrofica, ad esempio, il 90-95% dei casi è sporadico e il 5-10% è familiare. Dunque, nelle malattie neurodegenerative sono detti sporadici i casi ritenuti idiopatici, ovvero senza causa apparente. Anche se, a rigor di termini, ciò non è esatto, perché è stata dimostrata nella maggior parte delle forme idiopatiche una significativa influenza da parte di fattori genetici[2].

Non discutendo qui l’opportunità di impiegare l’espressione fattori di rischio, tratta dalla terminologia del gergo epidemiologico e statistico, alla quale noi preferiamo il concetto di  “elementi la cui presenza si associa ad una accresciuta probabilità che la malattia si sviluppi o si sia sviluppata”, introduciamo la questione della difficoltà di stabilire quali siano quelli certi. Il problema nasce da una serie di ragioni che proviamo a schematizzare qui di seguito.

1) Imperfetta corrispondenza fra criteri clinici e criteri genetici. Precisi criteri diagnostici sono stati definiti per la maggior parte delle sindromi causate da processi neurodegenerativi, basandosi su osservazioni cliniche e neuropatologiche. Tali criteri tendono ad accertare la presenza di un quadro coerente con un’entità nosografica predefinita, ma solo raramente possono basarsi su segni patognomonici e diacritici di un processo eziopatogenetico unico e inconfondibile, pertanto le procedure dignostiche tendono ad un’approssimazione, operata dai medici attraverso una sintesi di elementi singolarmente necessari e congiuntamente sufficienti[3]. Conseguentemente, le diagnosi non sono mai specifiche al 100% ed esiste la possibilità di una valutazione differente fra scuole mediche e centri di ricerca diversi. Ciò vuol dire che, in generale la ricerca genetica basata sulle diagnosi cliniche e in particolare l’indagine volta a stabilire fattori di rischio genetici, devono tener conto di questo scarto. In concreto, per fare un esempio caro a Rudolph Tanzi, un campione di pazienti affetti da malattia di Alzheimer ad insorgenza tardiva (LOAD, late onset Alzheimer’s disease) può essere un aggregato prevalentemente costituito da persone affette dalla degenerazione alzheimeriana, ma che include pazienti con altre forme di demenza (Lewy body, frontotemporale, ecc.) la cui presentazione clinica ha soddisfatto i criteri di diagnosi per la malattia di Alzheimer adottati dall’istituto medico di riferimento.

2) Difficoltà legate all’età di insorgenza. Una seconda difficoltà, che si ricollega alla prima, è data dall’epoca della vita in cui le manifestazioni cliniche vengono all’attenzione dei medici. L’esordio della maggior parte delle malattie neurodegenerative ha luogo oltre i 60 o i 70 anni. Questo incide su un importante prerequisito per l’analisi genetica, ossia la valutazione di storie familiari complete e precise e, perciò, affidabili ed utili. Infatti, la valutazione dell’anamnesi familiare è complicata dalla naturale scomparsa di un gran numero di parenti del paziente, fra quelli della generazione precedente e, in parte, anche della stessa generazione; per non contare la presenza, a questa età, di numerose altre condizioni mediche che possono mascherare o simulare il fenotipo della neurodegenerazione studiata.

3) Eterogeneità genetica e fenotipica. Le più comuni malattie, come è noto, ordinariamente presentano un grado elevato di eterogeneità genetica e fenotipica. Ciò vuol dire che non solo lo stesso fenotipo può essere causato e modificato da numerosi loci genici ed alleli, ma anche che le mutazioni o i polimorfismi nello stesso gene possono portare a sindromi clinicamente distinte.

4) Combinazione non prevedibile o non conosciuta fra fattori genetici e non genetici. Alcune combinazioni fra fattori di rischio genetici e non genetici possono accrescere in maniera significativa le differenze di una malattia in un particolare gruppo etnico o in una definita area geografica, mentre un altro insieme di fattori misconosciuti potrebbe agire in concomitanza su altri gruppi di persone o in altri territori.

Senza tener conto delle insidie schematizzate in questi quattro punti, oppure tenendone conto ma non potendo evitarle, la ricerca ha prodotto una notevole mole di dati sperimentali a sostegno di un gran numero di geni di suscettibilità[4] e di fattori di rischio ambientale per le più comuni malattie neurodegenerative. L’attività sperimentale, in questo senso, è proceduta per anni un po’ alla garibaldina, senza troppo preoccuparsi di quelli che apparivano a molti ricercatori come dettagli o influenze trascurabili. Negli anni recenti si è cercato di porre rimedio a questo procedere spontaneo e superficiale, perché si è rilevato che, fatte poche eccezioni, la maggior parte di questi studi aveva ricevuto solo uno scarso e incoerente supporto dalle verifiche successive svolte da gruppi di ricerca indipendenti. Questa situazione è in parte cambiata con l’avvento delle tecniche per la massiccia genotipizzazione in parallelo e, più recentemente, delle tecniche di sequenziamento, con le quali ora è possibile interrogare i genomi di un gran numero di soggetti a vari gradi di risoluzione.

Attualmente l’approccio più seguito si basa sugli screening di associazione estesi all’intero genoma, nei quali fino a un milione di markers genetici sono contemporaneamente genotipizzati e valutati per potenziali correlazioni con il rischio di malattia o con altre variabili fenotipiche, quali l’esordio della malattia clinica, la progressione del processo patologico, la sopravvivenza delle persone affette.

A partire dal 2005 la comunità internazionale dei genetisti ha visto la pubblicazione di una mole incredibile di studi di associazione sull’intero genoma, detti genome-wide association studies (GWAS), fra i quali una parte considerevole ha riferito dati sui seguenti processi neurodegenerativi: malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, demenza con corpi di Lewy, demenza fronto-temporale, sclerosi laterale amiotrofica, malattia di Creutzfeld-Jacob e altre malattie da prioni, malattia di Huntington ed altre malattie da ripetizione di triplette.

A dispetto del fatto che la percentuale di successi varia ancora molto da studio a studio, sono già emersi da questi progetti di ricerca numerosi loci di malattie neurodegenerative, confermati dalla verifica di vari gruppi di ricerca indipendenti, ed è molto probabile che si continuino ad ottenere risultati positivi nei prossimi anni, mettendo a disposizione un vasto materiale da interpretare.

Anche se l’approccio GWAS sta dando e darà ancora molti frutti, ha un limite notevole che consiste nella sua possibilità di applicazione limitata a tipi di variazioni genetiche (polimorfismi) relativamente comuni, ossia che si verifichino con una frequenza superiore all’1% nella popolazione generale. Il problema è che la responsabilità genetica sottostante le più comuni malattie poligeniche è conferita da varianti di sequenza rare, cioè con una frequenza minore dell’1% nella popolazione generale. L’identificazione de novo di queste rare varianti richiede il risequenziamento nelle persone affette, che oggi può essere ottenuto adoperando tecnologie di massiccio sequenziamento parallelo, “next generation”. Queste possono misurare qualsiasi cambiamento di sequenza, comune o raro, consentendo, per la prima volta nella storia della biologia, lo studio di interi genomi alla risoluzione della coppia di basi del DNA. Questo approccio, fin dall’inizio, ha consentito numerose scoperte sorprendenti, in particolare nel 2009[5] e nel 2010[6], e ci si aspetta che diventi il riferimento principale per la genetica umana entro il 2020[7].

Concludendo questo sintetico excursus sugli aspetti genetici comuni alle malattie neurodegenerative, non si può non osservare che, nonostante gli attuali limiti, le analisi genetiche hanno gettato le basi per la comprensione di numerosi meccanismi patogenetici che conducono alla degenerazione neurale e alle conseguenti manifestazioni cliniche. È lecito attendersi che il proseguire e il progredire della ricerca condurrà ad una comprensione dettagliata delle basi genetiche di tutti principali processi neurodegenerativi, consentendo lo sviluppo di strategie efficaci per prevedere, prevenire e trattare queste devastanti malattie.

 

Gli autori della nota invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Diane Richmond

BM&L-24 gennaio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Bertram L. & Tanzi R. E., The genetic epidemiology of neurodegenerative disease. The Journal of Clinical Investigation 115 (6): 1449-1457, 2005.

[2] Christina M. Lill, Rudolph E. Tanzi, Lars Bertram, Genetics of Neurodegenerative Diseases, p.719, in “Basic Neurochemistry” VIII edition (Brady, Siegel, Albers, Price, eds), Academic Press, Elsevier, 2012.

[3] Quando non si tratti addirittura di una diagnosi per esclusione di altra cause.

[4] Alleli indicanti un’ipotetica vulnerabilità del soggetto alla malattia in base alla stima di un’accresciuta probabilità di ammalarsi.

[5] Manolio T. A., et al. (2009), Nature 461 (7265): 747-753. Documenta evidenze di ereditabilità di malattie complesse.

[6] McClelland J. & King M. (2010), Cell 141 (2): 210-217. Scoperte in termini di eterogeneità genetica in patologia.

[7] Christina M. Lill, et al., op. cit., p. 721.